Gli ZiqqurHat al loro esordio: guerriglia sonora coi controcazzi.

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Apro Spotify, recensione da fare, cerco gli ZiqqurHat. Il titolo dell’album d’esordio: Phrenology. Open Office è aperto anche lui, la tastiera spalancata sotto le dita, pronta a registrare quanto su questi ZiqqurHat avrò da scrivere. Mi predispongo all’ascolto. Penso a come dovrei iniziare sta rece, a cosa dovrei buttarci dentro, cosa dovrei dare in pasto al lettore, cose tipo da quanti membri la band sia composta, due tre sette dieci dodici persone, le loro influenze, il loro background, le somiglianze, la mission, insomma le solite cose, le cose classiche.. dovrò in qualche modo trovare qualcosa da dire a riguardo, penso.

Poi l’album parte e la parola “solita band” mi schizza via dalla testa, mentre una scarica ritmica mi si inerpica dalle orecchie al cervello. Scossa adrenalinica che mi spana le meningi. Che botta. Ogni mio dubbio è dissolto: è subito scontro. Guerriglia sonora, della specie che ti sale come una dose anfetaminica e ti divelle le tempie. Effetto psicotropo, ma di quelli violenti proprio.

Tramkiller apre le danze, basso e chitarra si muovono sinuosi e cazzuti sotto la voce di Federico Giacobazzi, disegnando un serpentone sonoro distorto e corposo. I riff delle chitarre di Lorenzo Guagnano mi si cacciano nelle orecchie e non ne escono manco a trapanarli via, la voce ha un che di filtrato e si impone perfettamente tra il basso selvaggio di Federico Sigillo e la batteria magistralmente violentata da Sebastian Papa. La chitarra si eleva sull’ensemble con maestria e gran classe, disegnando ghirigori lisergici e vagamente seventy. Cazzuti questi, penso. Mi viene in mente la lunghissima accozzaglia di parole hard-heavy-crunch-alt rock.

007 si impone sghemba alle mie orecchie, di nuovo ritmica vibrante, potente, non dozzinale, gli incastri tra batteria e basso e poi basso e chitarra sono ben studiati, congegnati in modo geometrico. Però, non solo forza bruta questi ZiqqurHat! La chitarra a un certo punto si sgancia, lanciandosi in un assolo furioso che mi ricorda in qualche modo che non saprei spiegare il Frank Zappa meno jazz e più concreto. I cambi di ritmo imposti ai brani, quell’incedere stralunato di ritmiche in continua sovrapposizione che pare -e ribadisco, pare- improvvisato, d’altronde, ha molto a che fare col vecchio Frank. Adorabile strumentale, questo 007.

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Ma andiamo avanti. Stick Around comincia morbida, di una morbidezza quasi bluesy, poi la chitarra detta legge in disto e ci fa capire le intenzioni del gruppo. Non vi aspettate ovatta da questo gruppo: gli ZiqqurHat inoculano il germe del rock duro anche in quello che sembra cominciare come un innocuo standard blues. La voce di Federico scivola sul tessuto musicale riportandoci davvero alle atmosfere tipiche di un certo rock -o di quasi tutto?- degli anni ’70. Cazzo si, scomodo i Led Zeppelin, perché la direzione è quella. Ottima fattura, questo pezzo: nuovamente basso che si impone nella boscaglia sottotraccia della ritmica robusta della band, chitarra godereccia e dionisiaca che sgrava distorsioni come se niente fosse e senza soluzione di continuità, iricamando intrecci decisi ma/e onirici al punto giusto.

L’album scorre e io un’idea a questo punto me la sono fatta: questi c’hanno i coglioni e fanno musica coi controcazzi. Davvero ben suonata, poco spazio per le attitudini del momento (qui di post-rock o altro indie c’è ben poco), musica sanguigna e ragionata in modo esemplare secondo stilemi vintage che squarciano l’aria con violenza quasi bestiale.

Patty Blue è il quinto brano dell’album e qui davvero l’ecletticità degli ZiqqurHat emerge in tutta la sua virulenza. Si mette in campo un vario campionario sonoro, ritmiche che si sovrappongono e mutano, regalando impeccabili variazioni sul tema. Feedback di chitarra, pur sempre violentemente presente, e solita sezione basso-batteria che fa un lavoro omicida, perfetto nella potenza, un’onda sonora frastagliata che ammazza. La voce è di nuovo perfettamente a suo agio, costante dell’intero album questa: non c’è traccia dove l’intesa tra strumenti e voce non fili liscia.

Phrenology è la canzone che dà il titolo all’album. La solfa sembra cambiare, ora, e me ne stupisco. Immaginavo che in questa canzone si concentrasse l’essenza vitale degli ZiqqurHat e invece, colpo di scena, mi trovo di fronte a un qualcosa di completamente nuovo, diverso. Spiazzato, ascolto. La voce disegna melodie tender sorrette dall’arpeggio di uno strumento che di primo acchito mi pare un chitarrino, un banjo, non saprei. Chiedo a Federico: è un mandolino. Poi la chitarra irrompe, morbida, lateralmente, disegnando una sorta di coro in controluce, un arco sonoro che sale, evocativo, si dipana e sorregge l’insieme fatato. Mi pare anche di sentire l ‘accenno di un synth, Ascolto meglio. Ok, forse non è un synth. Potrebbe anche essere una chitarra molto elaborata, che accompagna l’altra in questa stasi mistica che si concreta nell’aria. Ma quel che conta davvero è che questo pezzo, così morbido, così melodioso, quasi fiabesco, è come il sorbetto dopo i primi al ristorante al pranzo di Natale. Manda giù dolcemente quanto è venuto prima e prepara a quel che verrà dopo. Ma a differenza del sorbetto, la cui cifra gastronomica non è certo quella del caviale, questo pezzo che dà il nome all’album possiede una gran cifra artistica. Da ascoltare assolutamente, per apprezzare meglio anche quest’altro lato degli ZiqqurHat, forse non maggioritario, ma pur sempre notevole nel suo incedere

Positivamente colpito da ciò, ascolto l’ultimo pezzo del cd, A drum. E qui, in un amen, mi salgono alla mente i miei amati Primus. Certo il basso non è quello di Les Claypool, e certamente non vuole esserlo, mantenendosi fedele a quella “durezza” granitica che contraddistingue l’intera sezione ritmica di Phrenology, la cui maggior attrattiva non sta nel virtuosismo ma nell’incastro robusto di basso e batteria, che si muovono in perfetta sincronia come un esercito affiatatissimo. Le chitarre, al solito, non perdono un colpo, perfettamente a loro agio in questa giungla distorta, sempre in evoluzione, mai scontate, piangono lancinanti per poi tornare a disegnare riff-serpente, sinuosi e seducenti. Un accenno ancora alla voce del cantante, su questo brano davvero a casa propria. Qui infatti Federico quasi recita. Sommesse risate sataniche accompagnano il pezzo, che incede come una macchina da guerra dopata e ricorda per cifra stilistica i primissimi pezzi dell’album.

Al di fuori del song by song, che secondo alcuni insigni recensori -e forse anche secondo me, pur non considerandomi insigne- è inutile e verboso virtuosismo, lo spirito di Phrenology emerge ben compatto, in quello che definirei un miscuglio esplosivo ben calibrato di hard rock, del più classico rock di gruppi come Led Zeppelin e Deep Purple, e di un certo alternative-metal/rock stile Primus, che però rappresenta senz’altro un’influenza meno diretta di quelle prima citate. Probabilmente è solo una mia associazione. Probabilmente solo questo.

Ad ogni modo, per dirla coi giovani, questo cd spacca. Go on, ZiqqurHat!

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